domenica 11 maggio 2008

LA GROTTA PALLAVICINI


(testo e immagini tratte da pagina web del sito: naturaeartifcio.com)

Conclusa intorno al 1562, pressoché coeva alla alessiana fonte Doria, è la grotta Pallavicini delle Peschiere, voluta da Tobia Pallavicino sulla collina di Multedo che domina la città nella progettazione della villa concordamente attribuita dalle fonte a Galeazzo Alessi, è stato recentemente rivalutato accanto a qust'ultimo, il ruolo di Giovan Battista Castello il Bergamasco, artista molto attivo a livello locale e protetto dal ricco committente genovese.
Il Bergamasco ebbe un ruolo notevole nella definizione del programma iconografico del Palazzo, dove è coinvolto anche Luca Cambiaso e potrebbe essere stato anche l'ispiratore della grotta Pallavicino, luogo centrale del giardino di questa villa.
Questa struttura accanto ad evidenti analogie con la grotta Doria, presenta un'impostazione divergente da quest'ultima: si tratta infatti di un ambiente a pianta ellittica, preceduta da atrio, con volta ribassata su cornice sostenuta da cariatidi e telamoni, segnata da costolature che ritagliano lunette e vele. Nelle prime sono scene con tritoni e nereidi, nelle seconde paesaggi con ruderi e monumenti classici, in parte derivati dalle incisioni del trattato architettonico del bolognese Sebastiano Serrio al centro della volta è un'anello astrologico, anche esso ellittico con le simbologie zodiacali. La tecnica esecutiva è molto simile alla fonte di Fassolo ma la pianta ottagonale si sostituisce una forma ellittica, più legata alla sensibilità manieristica; inoltre cambia il rapporto tra architettura ed ornato: mentre nella grotta alessiana struttura ed elementi decorativi erano tutt'uno e formavano un'unica grande macchina rustica, qui elemento figurativo in scala gigante le erme marmoree ricoperte di mosaici polimaterici è addossato alle pareti ma non è più parte integrante di esse.
Per questi elementi dunque, e per alcuni spunti tipici del Bergamasco, ma vicini ormai alle nuove fantasie decorative di Fontenainebleu satiri che sbucano da grotte aperte in ampi paesaggi di rovine, vivaci scontri tra tritoni, satiri e nereidi.

LA GROTTA DORIA

(testo e immagini tratte da pagina web del sito: naturaeartificio.com)

Le "grotte artificiali", non opera della natura ma dell'artificio dell'uomo sono un portato della cultura architettonica tardorinascimentale; al loro interno la presenza di sorgenti ha spesso indotto gli artisti che vi hanno posto mano a realizzarvi "giochi idraulici" o fantastiche composizioni formali che hanno avuto grande fortuna.

Un precedente di queste "delizie", può essere individuato nelle grotte artificiali da giardino che nel corso della metà del XVI secolo integrano i complessi architettonici della città di Genova.
Il Vasari cita la "fonte del Capitan Lercaro" di Galeazzo Alessi, ovvero la GROTTA DORIA, importante esempio nella tecnica adottata nella realizzazione di fonti artificiali di giardino e archetipo per i successivi sviluppi del fenomeno grotte a Genova.
Si tratta di quella oggi conosciuta come fonte Doria in origine proprietà della famiglia Doria Galleani ed acquistata nel 1603 da Giovanni Andrea I Doria, per essere compresa nel grandioso disegno del giardino di Fassolo.
E' probabile che si riferisca alla grotta in oggetto un passo di un viaggiatore spagnolo che, probabilmente tra il 1548 e il 1549, sotto lo pseudonimo di Pedro de Urdemalas narra di aver ammirato a Genova "una fonte....la mas delicada cosa que imaginarse puede", ornata "con tanti marmi, coralli, madreperle, medaglie ed altre figure": questa fonte viene ad essere un'importante riferimento ante quem per la datazione del manufatto.
La grotta insisteva nel XVI secolo su uno dei piani dei giardini terrazzati che scandivano la collina dietro palazzo del principe al di fuori delle mura genovesi, in prossimità della Porta di San Tommaso; oggi è compresa in un area della città fittamente edificata, inglobata in un caseggiato moderno, ormai accessibile solo attraverso un terrazzo privato.
La costruzione della linea ferroviaria e la totale distruzione del giardino a monte di palazzo Doria nella seconda metà dell'ottocento avevano condotto ad una perdita di memoria dell'esistenza del manufatto tanto che alla fine degli anni sessanta del secolo scorso veniva considerato distrutto questo fino alla riscoperta negli anni ottanta ad opera di Magnani.
L'ambiente principale era in origine preceduto da un atrio bi-absidato, oggi distrutto, dal quale si accedeva da una sala ottagona, ancora ben leggibile, sormontata da una volta a cupola divisa in otto spicchi, illuminata all'apice dalle finestre di una lanterna, al cui posto è oggi una schermatura in cemento.
Il perimetro della sala è segnato da arcate a tutto sesto: al loro interno sono divinità fluviali e paesaggi all'antica in mosaici polimaterici, alternati da nicchie incrostate da conchiglie che hanno davanti vasche con delfini.
Tra le arcate sono otto grandi erme con il busto coperto con una lorica e un canestro di frutta sul capo; sulla parete di fronte all'ingresso è una cavità rustica di maggiore profondità ornata di stalattiti. Decorazioni figure sono realizzate accorpando tessere di maiolica, ciottoli colorati, cristalli, conchiglie, frammenti corallini; l'intero sistema dei simboli della decorazione rimanda al regno delle acque: le personificazioni di fiumi, i materiali dei mosaici, le maggior parte di scene di matrice ovidiana rappresentate sulla volta: da sinistra Polifemo sullo scoglio, Galatea sulla conchiglia trainata da delfini, il rapimento di Europa, Nettuno sul cocchio; sull'altro lato Perseo uccide il mostro marino che minaccia Andromeda, Peleo e Teti, il rapimento di Deianira.
Un'ultima scena poco leggibile rappresenta una figura a cavallo di un delfino.